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Dal terzo millennio al terzo mondo autostradale

Dino Frambati

Genova, già Superba sui mari, porto di importanza mondiale, nonché città di grande bellezza naturale e di rinomata economia mercantile, pare isolata o quasi dal resto del mondo in un momento in cui i collegamenti tra nazioni e popoli sono un perno fondamentale del vivere civile.

Aeroporto con pochi voli, ferrovie che collegano, salvo rari casi, con difficoltà e tempi di percorrenza da Roma-New York in volo, il capoluogo ligure ed il resto d’Italia.

Ma soprattutto un sistema autostradale che, via via, viene definito girone dantesco, nel quale si entra senza prevedere quando e come se ne uscirà.

Per cui mi faccio notizia da me e narro come, nel pomeriggio avanzato di una normale domenica di sole in autunno e non data in nero per partenze o ritorni dalle vacanze, si possono impiegare oltre due ore per percorrere un tratto che quando ci metto un’ora è tanto.

L’inferno inizia dopo che imbocco il casello di Arquata Scriva, A7 direzione Genova, al ritorno di un fine settimana a casa nell’Appenino alla ricerca di relax tra verde, sole, natura quasi incontaminata e immersa nella quiete.

L’orologio segna qualche minuto dopo le 18:00. Il percorso è un po’ tortuoso e in discesa, sembra il Grand Canyon. Il traffico verso Sud è scorrevole e non particolarmente intenso. Ma inquieta un cartellone luminoso che avverte di una coda dopo Ronco Scrivia, con ritardo di circa 20 minuti. Non poco per una tratta da 40.

Ma i rallentamenti iniziano già dopo Isola del Cantone, causa corsia unica. Coda di una decina di minuti che a piedi sarei stato più veloce. Ma anche a causa, detto tra noi, di guidatori della domenica che sembra temano di restare lì in eterno se non si infilano tra auto incolonnate creando ulteriore rallentamento generale. Cantiere tanto deserto (vabbè è domenica) quanto lungo e corsia unica costretta da barriere in ferro.

Entrato nel cantiere e percorrendo i lavori in corso a 50 all’ora, chiedendomi perché mai si dovrà pure pagare un pedaggio per quel percorso autostradale “veloce”, mi consolo pensando che almeno non siamo più fermi e la meta si avvicina.

Pensiero però quanto mai fallace, perché dopo Isola ecco che spunta un’altra coda, peraltro quella annunciata dai cartelloni. E stavolta è tosta. Mi interrogo, faccio ipotesi, ma non comprendo, né sarò destinato a farlo in serata e forse mai, restiamo fermi per almeno 10 minuti.

Fermi dico. Totalmente fermi guardando gli stop rossi che fanno concorrenza al rosso di sera che emerge da una splendida serata con tanto di Luna da incanto. Bello lo scenario, ma rovinato dall’umore imposto dalla coda immobile.

Le ripartenze sono di qualche metro, due o tre, dieci quando va bene, venti o trenta quando lo spirito è come quello di chi vince la lotteria a quel leggero avanzamento, ricco di speranza.

Invece no. Passano più o meno 40 minuti in questa situazione, due o tre stop lunghissimi e mia moglie osserva che eravamo partiti per tempo, stante la stagione, per cenare ad ora decente e preparare le cose per il giorno dopo, lunedì, con quanto connesso ad un inizio di settimana, lavoro e altro.

Quando finalmente entro nella corsia unica più lunga dell’autostrada finora percorsa su due, faccio attenzione davanti e dietro per la solita presenza di automobilisti della domenica ma che - penso - non dovrebbero mai mettersi al volante, né di festa né di giorno feriale. Non tengono la distanza di sicurezza anche se dovrebbero volare per sorpassare; altri accelerano e poi frenano di botto ad ogni curva perché la A7 direzione Sud risale al ventennio, quando il traffico era più affollato di carrozze a cavallo che di auto a motore autonomo, ed ha più curve del passo del Gran San Bernardo. Si viaggia al massimo sui 40/50 finché si torna al raddoppio di corsia, visto come chi, assetato, trova acqua nel deserto.

Genova Ovest la supero con il Telepass dietro all’immancabile emulo di Verstappen, che non ha Telepass ma transita comunque nella porta riservata (senza chiedersi perché è diversa dalle altre) facendo scattare il rosso e impedendo il passaggio rapido a chi invece potrebbe transitare senza fermarsi.

La Sopraelevata mai mi apparve più bella, e dopo oltre due ore e mezza sono finalmente a casa, avendo distrutto tutto il relax del fine settimana in montagna.

È lunedì mattina e, dopo un viaggio così estenuante, la cronaca mi impone di scrivere del processo per il crollo del ponte Morandi: la vergogna nazionale più grave del dopoguerra, l’origine di una situazione indecente e tutt’altro che priva di responsabilità.

Penso con affetto e ammirazione al Comitato dei parenti delle vittime, che con coraggio restituisce dignità a un’infamia: quella di un viadotto venuto giù come burro, lasciando a Genova una ferita ignobile e immeritata per una città di grande civiltà.

E mi vergogno al pensiero di cosa pensa (scusate la ripetizione) chi deve arrivare a Genova o transitare per l’autostrada, trovandosi immerso in quella situazione non temporanea, ma ormai perenne e persistente.

Vergogna anche per il fatto di dover pagare un pedaggio, quando semmai dovrebbe essere riconosciuto un indennizzo a chi è costretto a sopportare tanto tormento viabile.

Vergogna, perché non è il traffico intenso ma le infrastrutture attorno a Genova a provocare tutto questo.

Dal terzo millennio a situazione da terzo mondo. 

Dino Frambati

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