La tragica alluvione di Genova del 1970 e la sofferenza di essere vittima di analoghi eventi
Dino Frambati negli anni Settanta
Ero giovanissimo nel 1970 ed ancora lontano dal giornalismo. Ero invece impegnato come imprenditore nell’azienda di famiglia di arredamento, con sede a Sampierdarena, e designer appassionato alla progettazione di mobili, arredi, interni che ideavo e disegnavo con il tecnigrafo.
Cercavo l’innovazione, l’ampliamento dell’azienda girando per l’Europa alla ricerca di nuove idee, visitando fiere del mobile, rassegne d’arredo, grandi marchi, imparando da geniali ideatori di linee d’avanguardia, dalle creazioni di grandi architetti come Le Corbusier, Alvar Aalto, Giò Ponti, Gau Aulenti, per citarne soltanto alcuni.
Ricordo molto bene quei due giorni di inizio ottobre sotto piogge torrenziali, forse i più drammatici mai vissuti sotto la Lanterna. Nel pomeriggio dovevo tornare in azienda, ma il traffico era impazzito, quasi bloccato. Dopo una serie di giri alla ricerca di un tragitto percorribile, mi diressi verso l’imbocco della sopraelevata alla Foce ma, non ricordo perché, scelsi poi di salire per corso Aurelio Saffi.
Destino e fortuna, perché dopo di me ci fu il disastro, passò il Bisagno che portò l’apocalisse in mare, trascinando e travolgendo tutto ciò che si permetteva di frapporsi alla sua onda nefasta.
Arrivai a Sampierdarena. Non c’era l’informazione di oggi e non si capiva nulla, non si sapeva nulla se non che la città pareva in guerra. Code, confusione, racconti che parevano incredibili di testimoni del disastro di proporzioni inenarrabili e che, all’epoca, pareva fantascienza, anche se l’alluvione, il disastro e il fango li avevamo già conosciuti a Firenze.
In azienda c’eravamo io e mio padre che mi disse di scricchiolii dai muri e che, per precauzione, aveva spostato al piano superiore alcuni pezzi in esposizione.
Eravamo ignoranti sul tema di eventi meteo estremi; non avevamo contezza (ma l’avremmo avuta ampia negli anni a seguire) che sotto una buona parte della sede espositiva scorreva un fiume, il Rio Belvedere, attraverso un cunicolo di due metri per due.
In quell’occasione del 7 e 8 ottobre la catastrofe colpì altrove e non avemmo conseguenze.
Ricordo lo sgomento del giorno dopo, la lettura incredula dei giornali. Eravamo sbigottiti, spaventati, allibiti.
Ricordo mio fratello, più piccolo di me e allora liceale, che aveva indossato stivali e impugnato il badile sporco di fango e si era impegnato a spalare con tanti altri, tutti angeli del fango. Da commuoversi per quello slancio generoso.
Anni dopo e ripetendosi con sempre più frequenza nubifragi ed eventi pluviali estremi o presunti tali, il Rio Belvedere sotterraneo non resse più e dal 1970 fino almeno al 2015 subì 24 o 25 alluvioni con danni giganteschi per la mia sede.
A fine luglio 1987, quando l’alluvione uccise una persona a Sampierdarena, il fiume intubato dalla speculazione edilizia mi fece addirittura crollare una scala interna e spaccò il pavimento per metri, dopo essere andato in pressione ed avere trovato via d’uscita proprio in vari punti di quei circa 700 metri a piano terra.
Danni allora milionari, ripetuti nel tempo e nei vari eventi alluvionali mai rimborsati da alcuno. Con generosi slanci di amici, colleghi negozianti, abitanti della zona che ogni volta intervenivano per aiutarmi a rimettere a posto le cose.
Negli anni ho vissuto un incubo ad ogni allerta, ad ogni nuvolone nero che oscurava il cielo, ad ogni giorno di fortissima pioggia, tuoni e lampi.
Intanto, nel frattempo, avevo pure intrapreso l’impegno del giornalismo, per il quale oltre che viverli, descrivevo i disastri alluvionali della zona di corrispondenza che era la Liguria, oltre che Genova e la delegazione ex Manchester del capoluogo ligure.
Ricordo che proprio nell’evento del 1987 l’allora assessore Giovanni Bagnara venne a vedere il disastro; scendemmo nel cunicolo del fiume e si scoprì un muro messo dai pescatori chissà quanti anni prima per difesa dalla risacca e che venne abbattuto, in quanto faceva esattamente il contrario impedendo all’acqua di defluire al mare.
Rinforzammo il pavimento, in alcuni punti lo sopraelevammo, inventai pedane ovunque per mantenere gli arredi esposti e quasi sempre costosi al salvo dell’acqua di fogna che trovava sempre il modo di filtrare dal pavimento.
Protezione civile e allerte vennero a protezione dei disastri, ma io potevo comunque fare ben poco contro l’acqua che arrivava dal sottosuolo e spostare la sede sarebbe stata un’impresa complicata.
In tutto ciò e fin dalle prime alluvioni sofferte pensai invece come opportuno e salvifico che ogni Municipio, Circoscrizione, Comune o località avrebbe dovuto fare una mappatura dei punti a rischio, delle criticità di ogni posto in Italia e porvi per quanto possibile rimedio con opere minimali o importanti a seconda dei casi, studiando e capendo, per ogni punto soggetto ad allagamento come renderlo meno fragile a danni e disastri.
Nel tempo lo scrissi anche in qualche editoriale, ripetendolo in varie apparizioni in tv nelle diverse trasmissioni che conducevo o cui partecipavo.
Mai fatto e mai neppure forse pensato dalla politica, dalle varie amministrazioni locali o nazionali.
Oggi le alluvioni sono seriali dovunque e, ogni volta, si parla di mutazioni climatiche. Si dibatte, si parla molto ma non si fa nulla o, al massimo chiudiamo alle auto le città, si sono inventate le targhe alterne che sono quanto di più insulso si possa pensare.
Poche, pochissime le realizzazioni negli anni a tutela di punti soggetti ad allagamenti, visto che ad allagarsi sono le stesse zone.
E mentre si dibatte da parte spesso di chi non conosce la materia, Giove Pluvio se ne ride.
Narro tutto ciò perché avendo vissuto queste situazioni che ti fanno davvero male e per le quali è molto difficile far percepire la sofferenza che si prova, ogni volta che accade un fatto del genere e devo raccontarlo da giornalista, mi viene un nodo alla gola che mi soffoca; mi sento gli occhi lucidi e ho dentro un sentimento di amarezza, quasi dolore. Perché comprendo appieno quello che vivono le persone alluvionate, che vedono distrutto ciò che hanno mezzo assieme e costruito in anni e anni e spesso in una vita.
Se chi disquisisce di clima subisse un’alluvione, provasse ciò che si prova a vedere casa o azienda che dà da vivere alla tua famiglia, immersa nel fango o altre cose tue che ti accompagnano nella quotidianità da gettare, sentisse quell’odore nauseante che dura a lungo, settimane o mesi anche dopo ripulitura e ripristino dei danni, invocherebbe qualche intervento strutturale adeguato anziché invocare massimi sistemi cosmici.
Dino Frambati

