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L’ultimo respiro del sole, in libreria

Una tragedia lontana, dal punto di vista geografico, ma che ci riporta a un interrogativo vicino: qual è il limite tra uomo e natura? Fino a che punto l’uomo può utilizzare le risorse dell’ambiente in cui vive senza mettere a rischio la sua stessa esistenza? È una riflessione sul cambiamento climatico e l’urgenza di regolamentare l’intervento antropico sul nostro Pianeta il soggetto del romanzo etnografico dell’antropologa Silvia Grossi. “L’ultimo respiro del sole” (Edizioni Laurana, collana Rimmel) è ambientato nel Sultanato del Kelantan in Malesia durante la tremenda alluvione del 2015 che devastò il Paese: un numero imprecisato di morti, 100.000 persone sfollate, interi villaggi distrutti, il pugno duro del governo sulla resistenza degli aborigeni. Un Paese, la Malesia, tra i territori del nostro Pianeta oggi a maggior rischio ecologico a causa delle massicce deforestazioni per far spazio a nuove piantagioni di palme dalle quali ricavare i più redditizi olio e gomma. In un alternarsi tra la narrazione in prima persona e pagine di diario tra il 2005 e il 2015, “L’ultimo respiro del sole” fa luce sulla vicenda degli aborigeni Temiar, guidati dall’anziana e saggia Tijah, impegnati in una resistenza attiva contro la deforestazione dei loro territori ancestrali.

Ad appoggiare la ribellione indigena sarà Fadi, mediatore capace di dare filo da torcere agli interessi di Mr Saaed, comandante di polizia corrotto e deciso a seguire le proprie ambizioni di potere fino alle estreme conseguenze. Ad accompagnare la battaglia del protagonista, che diviene riflessione stessa sul futuro del Paese, saranno lo sguardo indagatore di un medico malese e di un’antropologa occidentale. Con un ritmo narrativo a tratti incalzante, a tratti dominato dall’atmosfera placida della più pura tradizione letteraria orientale, la storia si dipana anche attraverso l’incontro con i coltivatori di riso, i pescatori di fiume e i cittadini che abitano la Malesia contemporanea. Il romanzo nasce dall’esperienza personale dell’autrice che ha vissuto in prima persona l’alluvione del 2015 come volontaria dei soccorsi e che ha all’attivo un’assidua frequentazione del SudEst asiatico lavorando dapprima come giornalista freelance (dal 2004) e, successivamente, come ricercatrice sul campo in seguito al compimento degli studi di antropologia. Il suo studio si è concentrato in particolare sul modo in cui le comunità aborigene malesi hanno fatto – e stanno tutt’oggi facendo – resistenza ambientale contro la deforestazione attuata dagli interessi delle multinazionali, riportando queste tematiche nelle pagine del romanzo: «So bene quanto il panorama non sia dovuto alla sfortuna che si è abbattuta su questi popoli, quanto purtroppo alla deforestazione in atto a causa del commercio dell’olio di palma e della gomma. Una conversione economica il cui prezzo è evidente nel post disastro e che da troppi anni è il tema protagonista delle proteste del gruppo Orang Temiar, la comunità aborigena che stiamo andando a incontrare».

Oggi come più che mai, anche in virtù di quanto sta accadendo da qualche anno anche nel nostro Paese (sempre più colpito da fenomeni metereologici anomali e da conseguenti dissesti idrogeologici) e nel mondo, si fa forte e viva la necessità di sensibilizzare i lettori attraverso la formula della narrazione sui rischi causati dall’intervento dell’uomo sulla natura, dall’eccessiva urbanizzazione e industrializzazione, che riduce spazi naturali e territori agricoli nelle aree più fragili e povere del mondo e che ghettizza e segrega in spazi ristretti e senza rispettare i diritti umanitari intere comunità indigene, sfollate dai loro territori ancestrali.È quello che avviene in Malesia dove l’abbattimento delle foreste ha causato numerosi problemi: in primis la distruzione della barriera naturale capace di attutire la furia dei monsoni e, a cascata, la conseguente perdita di ettari di piantagioni e la tracimazione dei fiumi, causando ingenti danni all’economia e agli equilibri della società locale. A ciò si aggiunge una riflessione su cosa possa significare un disastro di tale portata in un Paese dove i servizi sanitari, di soccorso e di ricostruzione sono appannaggio delle grandi metropoli dominate dai poteri forti, dove oggi convivono tra loro diversi gruppi etnici, spesso trasferiti a forza.

Paolo Fizzarotti

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